Questo è l’articolo scritto da Giovanni Ballarini, presidente nazionale dell’Accademia Italiana della Cucina e pubblicato su uno degli ultimi numeri della rivista “Civiltà della Tavola”. Lo proponiamo per l’acutezza della riflessione che si impone a tutti coloro che operano nel settore.
Cari Accademici, nonostante i ripetuti richiami a una cucina del territorio, sempre più di frequente vediamo giovani e meno giovani cuochi, soprattutto emergenti, che praticano e propongono una cucina la quale di territoriale ha ben poco. Forse hanno ragione quelli che, a imitazione dei francesi, parlano di una cucina di “prossimità” o “stagionale”. La cucina, come altre arti, si è staccata dalla terra nativa, per lanciarsi nel turbine della circolazione globale. Le cucine del passato, soprattutto quelle italiane, erano saldamente radicate nel loro territorio, non soltanto attraverso i prodotti della terra, ma attraverso la lingua, la cultura e l’arte locale. La cucina toscana, per esempio, non era soltanto quella di un certo tipo di pane, olio, vino, ortaggi, carni e via dicendo, ma traeva la sua identità dalla lingua e dall’arte locale, e un quadro di Giovanni Fattori, o di qualche altro dei macchiaioli, è anche una sua chiave di lettura. Più una cucina faceva parte di una cultura locale, più aveva la possibilità di un’affermazione nazionale e di attrarre un pubblico anche internazionale. Non si dimentichi l’esempio estremo della dieta mediterranea, inventata da un americano, Ancel Keys, affascinato da una cucina locale salernitana nella quale aveva individuato valori salutistici.
Nonostante le differenze, nessuna cucina locale italiana è mai stata una scatola chiusa, e chi operava in essa era aperto agli influssi che arrivavano da altre cucine. Influssi, è bene precisare, che erano interpretati e soprattutto espressi in profonda sintonia con la cultura locale, per cui uno stesso modello cucinario assumeva aspetti e significati comprensibili soltanto se collegati non tanto e soltanto al territorio, ma alla cultura che tale territorio aveva modellato. Per questo, una cognizione esatta dei ripieni delle paste da brodo padane deve fare riferimento ad antiche culture romane e longobarde. Studiare e analizzare le cucine locali come fossero a sé stanti è uno sbaglio. Se una piccola, se non minima, parte delle cucine locali circolava anche fuori del territorio (che Gioacchino Rossini portasse qualche alimento bolognese a Parigi non aveva alcun ruolo sulla cucina francese), i cuochi che operavano sul territorio facevano una ben radicata cucina locale per gli abitanti del luogo, e soprattutto per una piccola borghesia aliena da ogni sia pur piccola esterofilia. In modo analogo si potevano assaggiare e provare altre cucine, per poi ritornare subito alla propria, rassicurante cucina di casa.
Nel secondo Novecento tutto ciò è cambiato, anche in seguito a una evoluzione lunga che era iniziata con l’Unità d’Italia e la prima Grande guerra. Un cambiamento nel quale non si è ancora iniziato a mettere ordine, e che si collega alla scomparsa della classe borghese e della sua cucina, con mutamenti non ancora sufficientemente indagati e soprattutto percepiti. Anche con la forte tendenza delle culture locali ad allinearsi, differenze importanti – se ricercate – rimangono tra un posto e l’altro, fra le tradizioni e, non ultime, fra le cucine. A queste differenze devono continuare a rapportarsi le cucine locali, senza cadere nel facile rischio di falsificazioni e inganni, soprattutto commerciali. Paese di mare, cucina di pesce (e se volete vino bianco): binomio (o trinomio) spesso falso e ancor più frequentemente falsificato da un cuoco sia pur tecnicamente preparato, ma assolutamente ignorante del territorio in cui opera, soprattutto di quello marino. È cambiata profondamente anche la cultura dei consumatori, sempre meno legati alla tradizione e sempre più dipendenti dai mezzi di comunicazione, che non sanno più leggere il proprio territorio e la sua cucina. Consumatori che inoltre – soprattutto nei ristoranti – chiedono “novità” anche di un esotismo nazionale.
Venuta meno la possibilità di un ruolo importante sul proprio territorio, per i cuochi diviene sempre più forte il richiamo di una celebrità non più provinciale e locale, ma almeno nazionale, possibilmente televisiva, se non internazionale, resa possibile dalla ormai rapidissima diffusione globale della cucina e della gastronomia. Anzi, sarà proprio un successo fuori dal territorio a conferire al cuoco un prestigio, se non un’influenza, locale, anche quando il riconoscimento è stato ottenuto per una cucina con connotazioni anche esotiche, come nel caso della “francesizzazione” legata alla conquista di qualche stella.
Non vi è dubbio che il sole è unico ed è lo stesso sole che illumina tutta la terra. Ogni alba e ogni tramonto sono tuttavia differenti e unici nei diversi territori. Lo stesso è per la cucina e uno stesso piatto diventa diverso ogni qual volta interpreta un territorio e una stagione. Se quindi può esistere una cucina delle catene industriali dei grandi alberghi (la cosiddetta cucina internazionale), o della ristorazione industrializzata, non sarà mai una cucina mondiale, che al più resta un’illusione.