Una sana alimentazione parte dalla scelta delle materie prime, che devono essere sane. E questo è banalmente vero, o almeno dovrebbe esserlo.
Ma sono in molti a pensare che il cibo sano sia necessariamente più costoso, perché biologico o certificato. Invece, non è sempre vero. Certo, il mercato ci ha abituati a trovare cibo a prezzi estremamente bassi. Ma dietro questo risparmio, questo dumping dei prezzi, del tanto a poco, del 3X2, si nascondono spesso un eccessivo uso di fertilizzanti o anabolizzanti, la violazione delle più basilari regole di sanità pubblica, truffe alimentari, il mancato pagamento di contributi per la manodopera. In poche parole: cibo che fa danno all’individuo ed alla società. E invece il consumatore può evitare tutto questo, e senza dover necessariamente rifornirsi dal mercato biologico certificato che è spesso inaccessibile alle nostre tasche. Come fare? Basta diventare co-produttori o, più semplicemente far parte di un gruppo di supporto all’agricoltura.
Come? Sul sito del MIPAAF / Sinab leggiamo che “la Community Supported Agriculture (CSA) è un canale diretto di commercializzazione di prodotti agricoli, la maggior parte delle volte biologici (ndr. attenzione: in inglese organic non equivale al nostro biologico certificato!)
La CSA consiste in un gruppo di individui, membri della comunità, che assume la responsabilità della gestione di una azienda agricola insieme ai produttori. La proprietà dell’azienda di produzione è ripartita tra tutti i membri della comunità. L’elemento che contraddistingue la CSA è una profonda considerazione della cooperazione dei singoli individui all’interno dell’azienda agricola in quanto sentita parte della comunità.
I membri della comunità acquistano una quota (share) della produzione agricola pagandone anticipatamente il contro valore. Il prezzo della quota si determina ripartendo il totale dei costi previsti per la realizzazione del programma colturale tra tutti i membri. Una parte del prezzo della quota può essere compensata con una prestazione di lavoro.
Le prime CSA sono nate in Svizzera e Giappone negli anni ’60. Si sono diffuse negli USA a partire dalla metà degli anni ’80. Oggi negli Stati Uniti ce ne sono circa 400 localizzate nelle vicinanze dei centri urbani del New England, nella regione dei Great Lakes, negli stati del medio-atlantico e della costa occidentale.
Nella CSA il rischio di produzione, in caso di mancato raccolto, di rese inferiori a quelle stimate, malattie, danneggiamenti…, è a carico dei consumatori.
Tra i benefici a loro favore, vi sono la garanzia della qualità e della freschezza del prodotto, nonché la soddisfazione di contribuire al benessere della comunità.
I benefici per i produttori consistono nella ripartizione del rischio di produzione, miglioramento della situazione finanziaria aziendale, sicurezza del mercato e conseguimento di prezzi remunerativi.
La maggior parte delle CSA offre una notevole varietà di prodotti: ortaggi, frutta, piante officinali, uova, carne, latte e prodotti da forno, tipicamente ottenuti con applicazione del metodo di produzione biologico o biodinamico”. A ciò aggiungerei che spesso, in USA come in Italia, i prodotti compreati così, senza intermediazione, costano meno di quelli (meno sicuri) che si trovano in negozi e supermercati.
In Italia vi sono casi di aziende, i cui consumatori sono diventati consum-attori, ovvero prendono parte alle scelte strategiche dell’azienda. Ad esempio il progetto Spiga & Madia, che è nato con lo scopo di verificare la possibilità di ricostruire una filiera del pane biologico interamente gestita nella Brianza monzese di circa 50 km d raggio (cfr: il Capitale delle relazioni, Altraeconomia edizioni, 2010).
UCMed vi invita a rifletterci su. Buona spesa.
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