Ormai dobbiamo rassegnarci a una “cucina estetica” piuttosto che a una “cucina di sapori“. Gli chef costruiscono il loro storytelling, e con loro i locali dove lavorano, su una proposta culinaria squisitamente estetica la cui preparazione richiede senza dubbio fantasia, ma passa attraverso una manipolazione dei prodotti che perdono la loro autenticità per l’esasperazione che connota ormai ogni proposta gastronomica tralasciando anche un aspetto assolutamente non secondario del problema: la garanzia di non contaminare gli alimenti che, per essere confezionati ad arte, richiedono una manipolazione compositiva che mal si concilia col rispetto delle regole della sicurezza alimentare. Basti pensare al più recente allarme sui rischi di contaminazione alimentare della Listeria per cui occorre curare attentamente l’igiene delle mani con cui si trattano gli alimenti e si confezionano i piatti!
Occorre dirselo e riconoscerlo: la ricerca esasperata di una “cucina estetica” che ambisce a proporre gusti innovativi, ma spesso incoerenti rispetto a quelli che sono i sapori tradizionali dei prodotti impiegati, ha stravolto quella che si potrebbe definire la civiltà della tavola fatta di sapori espressione di saperi e di tradizioni che affondano le radici nella storia e nella cultura gastronomica nazionale.
Il rischio di imboccare la “strada del non ritorno” incombe sull’intero sistema dell’offerta gastronomica con la conseguenza di smarrire la genuinità e l’autenticità che hanno fatto grande la tradizione culinaria italiana.
Fermarsi a riflettere sul problema non significa perdere terreno, ma rinsaldare quelle radici che altrimenti rischiano di farci sconfinare in un’omologazione gastronomica senza identità e peculiarità, ma squisitamente consumistica e perciò destinata ad abortire!